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Diario / Re:Quanto ci costa restare nell'euro
« il: Marzo 30, 2017, 07:34:49 pm »
FONTE 1999: http://www.paologiaretta.it/1999/09/il-debito-estero-dei-paesi-poveri/
Le origini del debito estero
E’ importante risalire ai meccanismi che hanno portato ad una così rapida crescita del debito estero dei paesi meno sviluppati, perché solo attraverso la conoscenza di questi meccanismi si possono riconoscere le precise responsabilità del sistema finanziario internazionale e dei paesi ricchi e si può comprendere come l’intervento di remissione del debito, come più volte richiamato nei documenti della Chiesa Cattolica e delle organizzazioni di volontariato, non abbia a che fare con una logica di solidarietà verso le nazioni più povere, ma piuttosto ad una esigenza di equità.
Sostanzialmente il meccanismo scatenante della crescita esponenziale del debito estero dei paesi più poveri va individuata nella politica perseguita dal sistema bancario internazionale in conseguenza dello shock petrolifero del 1973 e 1979. L’aumento deciso unilateralmente dai paesi produttori di petrolio del prezzo del greggio fa affluire nelle casse dei paesi produttori rilevantissime disponibilità finanziarie (i cosiddetti petrodollari) che non possono trovare occasione di impiego all’interno dei paesi e che vengono quindi immessi nel sistema bancario occidentale. Le banche commerciali gestiscono questa eccezionale disponibilità (che nel 1980 raggiunge la cifra record di 113 miliardi di dollari) ricercando una collocazione sul mercato, indirizzandola prevalentemente, data la stagnazione delle economie occidentali, verso i paesi del terzo mondo. L’accanita concorrenza tra le banche porta ad interventi spesso poco attenti alla qualità degli investimenti, al rischio Paese, alla effettiva capacità economica dei paesi debitori a sostenere processi di sviluppo capaci di generare risorse aggiuntive per il pagamento del debito.
La seconda crisi petrolifera porta all’adozione di politiche da parte dei paesi più ricchi (USA e Gran Bretagna in particolare) che hanno come conseguenza un forte rafforzamento del dollaro ed una lievitazione dei tassi di interesse, che crescono in termini reali tra il 1978 ed il 1981 di oltre il 20%.
In sostanza i paesi poveri si trovano a pagare interessi crescenti con moneta sempre più debole e si innesca una spirale perversa. Nel 1982 il Messico si trova nell’impossibilità di onorare i propri debiti decidendo la sospensione dei pagamenti. La comunità internazionale reagisce predisponendo i primi programmi di ridefinizione delle scadenze del debito, allungandone i termini e ricontrattando le condizioni; le nuove risorse finanziarie che affluiscono ai paesi poveri sostanzialmente servono a liberare le banche commerciali private dalle proprie esposizioni: i crediti passano in gran parte agli organismi finanziari multilaterali (Fondo Monetario Internazionale e Banca Mondiale) che subordinano i propri interventi all’adozione da parte dei paesi debitori di “programmi di aggiustamento strutturale” che richiedono aumento dell’imposizione fiscale ed ingenti tagli alla spesa pubblica, aumentando le condizioni di povertà delle popolazioni e condizionando negativamente le opportunità di sviluppo futuro.
Il circolo vizioso debito/sottosviluppo
E’ iniziato così un circolo perverso: i paesi indebitati devono rifondere i debiti con valuta pregiata, la cui unica fonte significativa di approvvigionamento consiste nella esportazione di materie prime. Ma il prezzo delle materie prime è costantemente in calo sui mercati internazionali ( nell’ultimo anno il prezzo medio delle materie prime esclusi i prodotti petroliferi è diminuito del 16%), cosicché i paesi più indebitati si trovano due volte sfruttati: perché interessi elevati li obbligano a restituire più volte il capitale prestato, perché la valuta pregiata che devono acquisire costa sempre di più in rapporto alla loro moneta.
Basti pensare che i paesi dell’Africa subsahariana, la parte più povera dell’Africa, devono in media impiegare il 20% del loro prodotto lordo per pagare gli interessi dei debiti contratti: spendono quattro volte di più per pagare debiti a nazioni ricche di quanto possano spendere per gli interventi sanitari a favore delle proprie popolazioni. Soffermiamoci su questo dato: il 20% del prodotto interno lordo è una enormità, che impedisce di impostare ogni processo di sviluppo e promozione umana. Se l’Italia dovesse sostenere un onere di questa dimensione dovrebbe disporre ogni anno di una quota aggiuntiva di 200.000 miliardi di lire. La finanziaria più pesante del Governo Prodi necessaria per rientrare nei parametri di Maastricht ha richiesto un sacrificio di 60.000 miliardi: pensiamo cosa sarebbe del sistema economico, del sistema di protezione sociale, del sistema educativo del nostro paese, che pure è un paese ricco, se dovessimo affrontare ogni anno una manovra economica di queste dimensioni, con aumenti della pressione fiscale, licenziamenti massicci nel settore pubblico e tagli drammatici della spesa sanitaria, educativa ed assistenziale.
Nel 1980 il debito estero dei paesi in via di sviluppo assommava a 658 miliardi di dollari Usa, nel 1990 era salito a 1.539 miliardi di dollari ed oggi si calcola che il debito abbia raggiunto la somma di 2.200 miliardi di dollari, vale a dire circa il doppio del prodotto interno lordo dell’Italia: una cifra che ci appare enorme (e lo è per le economie dei paesi poveri) ma se la commisuriamo al cumulo delle transazioni finanziarie che avvengono nel mondo, a ciò che si spende per i sistemi di armamento e così via ci possiamo rendere conto che è una grandezza che può essere affrontata dalla comunità internazionale senza richiedere alcun significativo sacrificio.
Le cifre del debito sono naturalmente la spia del permanere, ed anzi dell’allargarsi di profonde disparità tra i singoli paesi: l’estendersi di processi di globalizzazione commerciale e finanziaria non sta affatto portando ad una crescita più equilibrata e continua.
E’ vero che i processi di sviluppo investono anche nuovi paesi, capaci di attivare investimenti esteri, ma i paesi marginali vedono accrescere sempre più la distanza dai paesi ricchi: oltre 80 paesi hanno redditi pro-capite più bassi di quelli che avevano dieci anni fa, una famiglia media africana consuma oggi il 20% in meno rispetto a 25 anni fa. Il divario di reddito tra il quinto più ricco della popolazione mondiale ed il quinto più povero si sta accrescendo spaventosamente: era di 30 a 1 nel 1960 rispetto al 74 a 1 del 1997. Cresce anche la concentrazione della ricchezza: i 200 individui più ricchi al mondo hanno più che raddoppiato il proprio patrimonio negli ultimi quattro anni: con oltre 1.000 miliardi di dollari USA posseggono un patrimonio pari al reddito del 41% della popolazione mondiale: è stato osservato che basterebbe un contributo dell’1% annuo sul patrimonio di questi 200 individui per offrire l’accesso universale alla istruzione primaria. Nel 1998 le prime dieci industrie di pesticidi controllavano l’85% della produzione globale, mentre nel settore delle telecomunicazioni le prime dieci imprese controllano l”86% del mercato. I paesi OCSE con il 19% della popolazione globale controllano il 71% del commercio globale di beni e servizi, il 58% degli investimenti diretti esteri.
Le prospettive per i prossimi anni restano negative. Un recente rapporto della Banca Mondiale mette in luce la grave crisi che caratterizza l’economia dei paesi sottosviluppati in conseguenza della crisi finanziaria internazionale iniziata in Asia. Il tasso medio di sviluppo è destinato a calare all’1,5%, rispetto al 4,8% del 1997, raggiungendo il livello più basso dal 1982 e non è prevista una ripresa significativa prima del 2001. Il rallentamento del commercio mondiale, il calo dei prezzi delle materie prime e l’abbandono degli investimenti esteri (il flusso dai mercati di capitali internazionali verso i paesi in via di sviluppo è sceso a 72 miliardi di dollari dai 136 miliardi del 1997) obbligherà i paesi in via di sviluppo ad adottare ulteriori politiche restrittive con drammatiche conseguenze sulla condizione della popolazione.
In questo quadro appare sconfortante l’abbandono da parte dei paesi sviluppati delle politiche di cooperazione e di aiuto: nel 1998 l’assistenza allo sviluppo si è fermata alla cifra globale di 33 miliardi di dollari, un terzo al di sotto del livello del 1990 in termini reali. I paesi OCSE si erano impegnati a portare l’assistenza allo sviluppo allo 0,7% del PIL: al contrario gli aiuti sono calati allo 0,22% del PIL rispetto allo 0,35% del 1990.
Non è questa la sede per approfondire tutte le implicazione dei processi di globalizzazione finanziaria, commerciale, culturale; sono evidenti però i rischi che rapporti transnazionali, in cui soggetti privati contano più di singoli stati, dominati da una esasperata logica di competizione globale generino situazioni di instabilità finanziaria, scontri commerciali, rapporti di dominanza, violazione di diritti umani fondamentali, che sono le premesse per un aumento di conflitti anche di natura bellica.
Rispetto alla globalizzazione dell’economia troppo debole e squilibrata appare la risposta dei Governi: le maggiori strutture economiche (Fondo Monetario Internazionale, Banca Mondiale, Organizzazione Mondiale per il Commercio) sono espressione prevalente degli interessi dei paesi ricchi, l’ONU risulta depotenziata rispetto a sedi decisionali e di concertazione (G-7, Nato, OCSE) che organizzano gli interessi della parte più sviluppata del pianeta.
Manca quella che viene chiamata “global governance”: sedi e procedure che senza limitare tutte le potenzialità positive dei processi di globalizzazione siano in grado di imporre un quadro di regole globali che possano offrire maggiore controllo e trasparenza nelle decisioni dei soggetti economici, assumere iniziative più forti per la tutela dei diritti umani e dell’ambiente, promuovere relazioni più eque tra gli stati.
L’UNPD (United Nations Development Programme) propone ad esempio i seguenti elementi chiave per una nuova architettura internazionale:
un sistema delle Nazioni Unite più forte e coerente, con u maggior impegno di tutti i Paesi;
- una banca centrale globale;
- un trust mondiale degli investimenti:
- una agenzia mondiale per l’ambiente;
- una revisione dell’Organizzazione Mondiale del Commercio, in senso più equo e con un mandato più esteso;
- una Corte Penale Internazionale con un mandato più ampio per i diritti umani;
- delle NU più ampie, che comprenda una Assemblea generale a due camere per permettere che la società civile sia rappresentata.
Possono sembrare obiettivi ambiziosi, e certamente lo sono, ma la sfida della globalizzazione richiede alla politica un sovrappiù di coraggio e lungimiranza.
Perché cancellare il debito
Vi sono almeno quattro buoni motivi per procedere alla cancellazione o sostanziale riduzione del debito dei paesi più poveri.
- Il capitale prestato è stato ormai restituito più volte ed occorre sottolineare che i debiti dei paesi poveri sono diventati una iniqua fonte di profitto e di finanziamento dei paesi più ricchi: basti rilevare che il Fondo Monetario Internazionale dal 1987 ad oggi ha ricevuto dai paesi africani 2,4 miliardi di dollari in più di quanto abbia dato agli stessi paesi; si calcola che le istituzioni finanziarie internazionali abbiano incassato nel 1997 272 miliardi di dollari in interessi e rate di ammortamento del debito estero. Si tratta perciò di por mano ad una opera doverosa che attiene più il dominio della giustizia che quello della solidarietà.
- Occorre aver presente la necessità di rispettare un concetto di accettabilità e sostenibilità del debito. Molti di questi prestiti hanno condizioni (tassi di interesse, mancanza di diritti per il debitore, ecc.) che sul piano del diritto interno potrebbero essere definiti di carattere usuraio: l’UNPD stima che negli anni ’80 i tassi di interessa applicati ai paesi poveri siano stati quattro volte superiori a quelli accordati ai paesi ricchi a ragione della minore solvibilità e del maggior rischio. Che interesse hanno i paesi occidentali a pretendere il pagamento di debiti da parte di economie che non hanno la possibilità di sostenere un onere così rilevante: non si avrà l’adempimento delle obbligazioni e si avrà la distruzioni di economie che in prospettiva invece potrebbero diventare partners dei paesi più ricchi.
- Si tratta di una iniziativa eccezionale, giustificata dalle ragioni eccezionali che hanno scatenato la crescita del debito; è vero che sono diffusi casi di corruzione o di cattivo uso delle risorse disponibili (come l’acquisto di armamenti) ma la ragione fondamentale sta nell’iniziativa dei paesi occidentali di trovare collocazione per il surplus di “petrodollari”.
- Le disponibilità ricavate dall’annullamento del debito possono essere riconvertite nel finanziamento di politiche attive di promozione umana: interventi per la sanità, per l’istruzione, per le infrastrutture di base, per il finanziamento di microiniziative di imprenditorialità, in collaborazione con le organizzazioni non governative che operano nei paesi poveri. Passare perciò da una politica che ha visto crescere debiti per l’acquisto di beni commerciali dei paesi più ricchi ad una politica che veda restituire queste somme per interventi di sviluppo equilibrato e rispettoso dell’ambiente e delle culture locali.
Le origini del debito estero
E’ importante risalire ai meccanismi che hanno portato ad una così rapida crescita del debito estero dei paesi meno sviluppati, perché solo attraverso la conoscenza di questi meccanismi si possono riconoscere le precise responsabilità del sistema finanziario internazionale e dei paesi ricchi e si può comprendere come l’intervento di remissione del debito, come più volte richiamato nei documenti della Chiesa Cattolica e delle organizzazioni di volontariato, non abbia a che fare con una logica di solidarietà verso le nazioni più povere, ma piuttosto ad una esigenza di equità.
Sostanzialmente il meccanismo scatenante della crescita esponenziale del debito estero dei paesi più poveri va individuata nella politica perseguita dal sistema bancario internazionale in conseguenza dello shock petrolifero del 1973 e 1979. L’aumento deciso unilateralmente dai paesi produttori di petrolio del prezzo del greggio fa affluire nelle casse dei paesi produttori rilevantissime disponibilità finanziarie (i cosiddetti petrodollari) che non possono trovare occasione di impiego all’interno dei paesi e che vengono quindi immessi nel sistema bancario occidentale. Le banche commerciali gestiscono questa eccezionale disponibilità (che nel 1980 raggiunge la cifra record di 113 miliardi di dollari) ricercando una collocazione sul mercato, indirizzandola prevalentemente, data la stagnazione delle economie occidentali, verso i paesi del terzo mondo. L’accanita concorrenza tra le banche porta ad interventi spesso poco attenti alla qualità degli investimenti, al rischio Paese, alla effettiva capacità economica dei paesi debitori a sostenere processi di sviluppo capaci di generare risorse aggiuntive per il pagamento del debito.
La seconda crisi petrolifera porta all’adozione di politiche da parte dei paesi più ricchi (USA e Gran Bretagna in particolare) che hanno come conseguenza un forte rafforzamento del dollaro ed una lievitazione dei tassi di interesse, che crescono in termini reali tra il 1978 ed il 1981 di oltre il 20%.
In sostanza i paesi poveri si trovano a pagare interessi crescenti con moneta sempre più debole e si innesca una spirale perversa. Nel 1982 il Messico si trova nell’impossibilità di onorare i propri debiti decidendo la sospensione dei pagamenti. La comunità internazionale reagisce predisponendo i primi programmi di ridefinizione delle scadenze del debito, allungandone i termini e ricontrattando le condizioni; le nuove risorse finanziarie che affluiscono ai paesi poveri sostanzialmente servono a liberare le banche commerciali private dalle proprie esposizioni: i crediti passano in gran parte agli organismi finanziari multilaterali (Fondo Monetario Internazionale e Banca Mondiale) che subordinano i propri interventi all’adozione da parte dei paesi debitori di “programmi di aggiustamento strutturale” che richiedono aumento dell’imposizione fiscale ed ingenti tagli alla spesa pubblica, aumentando le condizioni di povertà delle popolazioni e condizionando negativamente le opportunità di sviluppo futuro.
Il circolo vizioso debito/sottosviluppo
E’ iniziato così un circolo perverso: i paesi indebitati devono rifondere i debiti con valuta pregiata, la cui unica fonte significativa di approvvigionamento consiste nella esportazione di materie prime. Ma il prezzo delle materie prime è costantemente in calo sui mercati internazionali ( nell’ultimo anno il prezzo medio delle materie prime esclusi i prodotti petroliferi è diminuito del 16%), cosicché i paesi più indebitati si trovano due volte sfruttati: perché interessi elevati li obbligano a restituire più volte il capitale prestato, perché la valuta pregiata che devono acquisire costa sempre di più in rapporto alla loro moneta.
Basti pensare che i paesi dell’Africa subsahariana, la parte più povera dell’Africa, devono in media impiegare il 20% del loro prodotto lordo per pagare gli interessi dei debiti contratti: spendono quattro volte di più per pagare debiti a nazioni ricche di quanto possano spendere per gli interventi sanitari a favore delle proprie popolazioni. Soffermiamoci su questo dato: il 20% del prodotto interno lordo è una enormità, che impedisce di impostare ogni processo di sviluppo e promozione umana. Se l’Italia dovesse sostenere un onere di questa dimensione dovrebbe disporre ogni anno di una quota aggiuntiva di 200.000 miliardi di lire. La finanziaria più pesante del Governo Prodi necessaria per rientrare nei parametri di Maastricht ha richiesto un sacrificio di 60.000 miliardi: pensiamo cosa sarebbe del sistema economico, del sistema di protezione sociale, del sistema educativo del nostro paese, che pure è un paese ricco, se dovessimo affrontare ogni anno una manovra economica di queste dimensioni, con aumenti della pressione fiscale, licenziamenti massicci nel settore pubblico e tagli drammatici della spesa sanitaria, educativa ed assistenziale.
Nel 1980 il debito estero dei paesi in via di sviluppo assommava a 658 miliardi di dollari Usa, nel 1990 era salito a 1.539 miliardi di dollari ed oggi si calcola che il debito abbia raggiunto la somma di 2.200 miliardi di dollari, vale a dire circa il doppio del prodotto interno lordo dell’Italia: una cifra che ci appare enorme (e lo è per le economie dei paesi poveri) ma se la commisuriamo al cumulo delle transazioni finanziarie che avvengono nel mondo, a ciò che si spende per i sistemi di armamento e così via ci possiamo rendere conto che è una grandezza che può essere affrontata dalla comunità internazionale senza richiedere alcun significativo sacrificio.
Le cifre del debito sono naturalmente la spia del permanere, ed anzi dell’allargarsi di profonde disparità tra i singoli paesi: l’estendersi di processi di globalizzazione commerciale e finanziaria non sta affatto portando ad una crescita più equilibrata e continua.
E’ vero che i processi di sviluppo investono anche nuovi paesi, capaci di attivare investimenti esteri, ma i paesi marginali vedono accrescere sempre più la distanza dai paesi ricchi: oltre 80 paesi hanno redditi pro-capite più bassi di quelli che avevano dieci anni fa, una famiglia media africana consuma oggi il 20% in meno rispetto a 25 anni fa. Il divario di reddito tra il quinto più ricco della popolazione mondiale ed il quinto più povero si sta accrescendo spaventosamente: era di 30 a 1 nel 1960 rispetto al 74 a 1 del 1997. Cresce anche la concentrazione della ricchezza: i 200 individui più ricchi al mondo hanno più che raddoppiato il proprio patrimonio negli ultimi quattro anni: con oltre 1.000 miliardi di dollari USA posseggono un patrimonio pari al reddito del 41% della popolazione mondiale: è stato osservato che basterebbe un contributo dell’1% annuo sul patrimonio di questi 200 individui per offrire l’accesso universale alla istruzione primaria. Nel 1998 le prime dieci industrie di pesticidi controllavano l’85% della produzione globale, mentre nel settore delle telecomunicazioni le prime dieci imprese controllano l”86% del mercato. I paesi OCSE con il 19% della popolazione globale controllano il 71% del commercio globale di beni e servizi, il 58% degli investimenti diretti esteri.
Le prospettive per i prossimi anni restano negative. Un recente rapporto della Banca Mondiale mette in luce la grave crisi che caratterizza l’economia dei paesi sottosviluppati in conseguenza della crisi finanziaria internazionale iniziata in Asia. Il tasso medio di sviluppo è destinato a calare all’1,5%, rispetto al 4,8% del 1997, raggiungendo il livello più basso dal 1982 e non è prevista una ripresa significativa prima del 2001. Il rallentamento del commercio mondiale, il calo dei prezzi delle materie prime e l’abbandono degli investimenti esteri (il flusso dai mercati di capitali internazionali verso i paesi in via di sviluppo è sceso a 72 miliardi di dollari dai 136 miliardi del 1997) obbligherà i paesi in via di sviluppo ad adottare ulteriori politiche restrittive con drammatiche conseguenze sulla condizione della popolazione.
In questo quadro appare sconfortante l’abbandono da parte dei paesi sviluppati delle politiche di cooperazione e di aiuto: nel 1998 l’assistenza allo sviluppo si è fermata alla cifra globale di 33 miliardi di dollari, un terzo al di sotto del livello del 1990 in termini reali. I paesi OCSE si erano impegnati a portare l’assistenza allo sviluppo allo 0,7% del PIL: al contrario gli aiuti sono calati allo 0,22% del PIL rispetto allo 0,35% del 1990.
Non è questa la sede per approfondire tutte le implicazione dei processi di globalizzazione finanziaria, commerciale, culturale; sono evidenti però i rischi che rapporti transnazionali, in cui soggetti privati contano più di singoli stati, dominati da una esasperata logica di competizione globale generino situazioni di instabilità finanziaria, scontri commerciali, rapporti di dominanza, violazione di diritti umani fondamentali, che sono le premesse per un aumento di conflitti anche di natura bellica.
Rispetto alla globalizzazione dell’economia troppo debole e squilibrata appare la risposta dei Governi: le maggiori strutture economiche (Fondo Monetario Internazionale, Banca Mondiale, Organizzazione Mondiale per il Commercio) sono espressione prevalente degli interessi dei paesi ricchi, l’ONU risulta depotenziata rispetto a sedi decisionali e di concertazione (G-7, Nato, OCSE) che organizzano gli interessi della parte più sviluppata del pianeta.
Manca quella che viene chiamata “global governance”: sedi e procedure che senza limitare tutte le potenzialità positive dei processi di globalizzazione siano in grado di imporre un quadro di regole globali che possano offrire maggiore controllo e trasparenza nelle decisioni dei soggetti economici, assumere iniziative più forti per la tutela dei diritti umani e dell’ambiente, promuovere relazioni più eque tra gli stati.
L’UNPD (United Nations Development Programme) propone ad esempio i seguenti elementi chiave per una nuova architettura internazionale:
un sistema delle Nazioni Unite più forte e coerente, con u maggior impegno di tutti i Paesi;
- una banca centrale globale;
- un trust mondiale degli investimenti:
- una agenzia mondiale per l’ambiente;
- una revisione dell’Organizzazione Mondiale del Commercio, in senso più equo e con un mandato più esteso;
- una Corte Penale Internazionale con un mandato più ampio per i diritti umani;
- delle NU più ampie, che comprenda una Assemblea generale a due camere per permettere che la società civile sia rappresentata.
Possono sembrare obiettivi ambiziosi, e certamente lo sono, ma la sfida della globalizzazione richiede alla politica un sovrappiù di coraggio e lungimiranza.
Perché cancellare il debito
Vi sono almeno quattro buoni motivi per procedere alla cancellazione o sostanziale riduzione del debito dei paesi più poveri.
- Il capitale prestato è stato ormai restituito più volte ed occorre sottolineare che i debiti dei paesi poveri sono diventati una iniqua fonte di profitto e di finanziamento dei paesi più ricchi: basti rilevare che il Fondo Monetario Internazionale dal 1987 ad oggi ha ricevuto dai paesi africani 2,4 miliardi di dollari in più di quanto abbia dato agli stessi paesi; si calcola che le istituzioni finanziarie internazionali abbiano incassato nel 1997 272 miliardi di dollari in interessi e rate di ammortamento del debito estero. Si tratta perciò di por mano ad una opera doverosa che attiene più il dominio della giustizia che quello della solidarietà.
- Occorre aver presente la necessità di rispettare un concetto di accettabilità e sostenibilità del debito. Molti di questi prestiti hanno condizioni (tassi di interesse, mancanza di diritti per il debitore, ecc.) che sul piano del diritto interno potrebbero essere definiti di carattere usuraio: l’UNPD stima che negli anni ’80 i tassi di interessa applicati ai paesi poveri siano stati quattro volte superiori a quelli accordati ai paesi ricchi a ragione della minore solvibilità e del maggior rischio. Che interesse hanno i paesi occidentali a pretendere il pagamento di debiti da parte di economie che non hanno la possibilità di sostenere un onere così rilevante: non si avrà l’adempimento delle obbligazioni e si avrà la distruzioni di economie che in prospettiva invece potrebbero diventare partners dei paesi più ricchi.
- Si tratta di una iniziativa eccezionale, giustificata dalle ragioni eccezionali che hanno scatenato la crescita del debito; è vero che sono diffusi casi di corruzione o di cattivo uso delle risorse disponibili (come l’acquisto di armamenti) ma la ragione fondamentale sta nell’iniziativa dei paesi occidentali di trovare collocazione per il surplus di “petrodollari”.
- Le disponibilità ricavate dall’annullamento del debito possono essere riconvertite nel finanziamento di politiche attive di promozione umana: interventi per la sanità, per l’istruzione, per le infrastrutture di base, per il finanziamento di microiniziative di imprenditorialità, in collaborazione con le organizzazioni non governative che operano nei paesi poveri. Passare perciò da una politica che ha visto crescere debiti per l’acquisto di beni commerciali dei paesi più ricchi ad una politica che veda restituire queste somme per interventi di sviluppo equilibrato e rispettoso dell’ambiente e delle culture locali.