Autore Topic: Quanto ci costa restare nell'euro  (Letto 3589 volte)

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Davide Gionco

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Quanto ci costa restare nell'euro
« il: Marzo 30, 2017, 06:40:12 am »
Vorrei condividere con voi questo interessante articolo di Jacques Sapir (in francese) in cui si mostrano, dati alla mano, le ragioni della crisi economica nell'area euro (a parte Germania e Olanda).

Dal 2008 al 2015 l'Italia ha avuto una crescita media di -1.1%, solo la Grecia ha fatto peggio.

Supponendo un tasso di crescita medio del 2% che potremmo avere avuto stando fuori dall'euro, la permanenza nell'euro dal 1999 ad oggi ci è già costata la bellezza di un 40% di PIL di mancata crescita, ovvero 640 miliardi di euro.

A questa cifra dovremmo poi aggiungere quanto abbiamo esborsato per i meccanismi come il MES, ecc., che ci fanno arrivare a circa 750 miliardi di euro di danni causati dalla permanenza nell'euro, circa 12'500 euro a persona.

https://russeurope.hypotheses.org/5853

Davide Gionco




Michele Citarella

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Re:Quanto ci costa restare nell'euro
« Risposta #1 il: Marzo 30, 2017, 09:46:04 am »
Grazie Dadive, una fotografia chiara e netta che gli italiani possono capire a chi giova rimanere in Europa o chi non giova, i numeri parlano chiaro. una europa cosi non ci serve

Leonardo Ranieri Triulzi

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Re:Quanto ci costa restare nell'euro
« Risposta #2 il: Marzo 30, 2017, 10:14:53 am »
E' proprio vero una Europa così proprio non ci serve. E pensare che essendo venuti tutti a Roma avrebbero potuto ricominciare da capo sulla base del Progetto originale che prevedeva almeno uno Stati Uniti di Europa del tipo federale e non una sola unione economica dove il più forte l'avrebbe fatta da padrone !
Grazie Davide

Alessandro Coluzzi

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Re:Quanto ci costa restare nell'euro
« Risposta #3 il: Marzo 30, 2017, 01:31:08 pm »
 I problemi monetari sono di almeno due livelli:


1) primo livello:Euro. Una moneta comune tra più Stati, che implica  la necessità di svalutare i fattori della produzione per essere competitivi, non potendosi modificare il tasso di cambio tra gli Stati aderenti.
Tenuto conto che l'Italia ha uno stock di debito più alto di altri paesi e (per una serie di motivi) ha un rating più basso di altri e dunque in assoluto ha un debito pubblico molto più costoso (circa 80 miliardi di euro annui di interessi, il che implica tasse sulle imprese e sull'energia più alte), ne consegue che le imprese che operano in Italia, avendo già tasse, costo del denaro ed energia più elevate di quelle ad esempio tedesche, devono NECESSARIAMENTE svalutare altri fattori della produzione, ossia principalmente il lavoro (ma anche il costo immobiliare), per rimanere competitivi. Ovviamente, svalutando il costo del LAVORO, si riducono i redditi futuri e quindi vi è la crisi.
La c.d. "crisi" in Italia, continuando a permanere nell'euro, è dunque assolutamente MATEMATICA (salvo non ci fossero in futuro trasferimenti fiscali gratuiti  dalla Germania-Olanda).
I 750 miliardi indicati si riferiscono al passato, ma quanto valgono i futuri?

Soluzione parziale: basterebbe fare una regola SOLIDALE che facesse pagare le spese di funzionamento alla UE in via preventiva con i soli saldi positivi commerciali di ogni Paese nei confronti degli altri paesi intra UE (potrebbe essere una proposta di modifica dei trattati da studiare?) e vedreste che la Germania-Olanda finirebbero la loro operazione di "stritolamento" degli altri, perchè attraverso i finanziamenti UE le risorse in eccesso di Germania-Olanda tornerebbero agli altri paesi, facendo finalmente ricircolare la moneta.


2) secondo livello: MONETA=DEBITO. Gli argomenti di Nicoletta Forcheri  ed altri, di cui si è discusso anche in altri topic. E' un problema praticamente di tutte le attuali monete dei paesi capitalisti. Non ho approfondito, ma non penso che ad esempio Iran o Cuba emettano titoli del debito pubblico nelle loro valute per stampare la loro moneta (semmai hanno debito in valute estere in funzione di commerci internazionali).
 
Soluzione: modificare l'attuale natura della moneta=debito e fare modifiche costituzionali (ad esempio, la Banca d'italia non è citata nella Costituzione, mentre la BCE lo è nei Trattati UE) rendendo autonomo il potere monetario da quello esecutivo, sebbene soggetto sempre alla sovranità popolare democratica.

Luigi Intorcia

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Re:Quanto ci costa restare nell'euro
« Risposta #4 il: Marzo 30, 2017, 07:09:12 pm »
le cose non stanno esattamente così, in quanto il regime monetario dei paesi sottosviluppati prevede la stampa della loro moneta, ma non il diritto di cambio dalla moneta pregiata alle moneta locale. In altri termini se si cambiano dollari con la loro moneta nei loro confini, all'inverso non avviene e quindi sono a caccia di moneta pregiata in quanto la loro non è nemmeno presa in considerazione. Si conclude che se hanno bisogno di moneta pregiata, di fatto non la ottengono da alcuna banca occidentale, orientale o di altre nazioni ed ecco perchè sono sottosviluppati. Il cambio ce l'hanno esclusivamente se hanno prodotti da esportare. Non avendoli, nessuno li finanzia, se non autofinanziandosi da soli e quindi vivono in completa autarchia monetaria.

La colpa di tutto questo è ovviamente dell'F.M.I. o banca mondiale che ha delle regole per erogare  prestiti, talmente tanto stringenti, che una nazione  secondo tali regole deve vendersi al 100% a quella istituzione, ammesso che quella stessa istituzione la voglia comprare!!

Siccome non ha mai voluto finanziare, in quanto quelle nazioni di fatto non potranno mai restituire i prestiti in moneta pregiata, le popolazioni sono lasciate  letteralmente alla fame.
Il prezzo? Milioni di morti per denutrizione in un anno di cui oltre 3 milioni di bambini. In realtà nessuno li va a contare e quindi è una cifra orrendamente per difetto..........
« Ultima modifica: Marzo 30, 2017, 07:17:07 pm da Luigi Intorcia »

Luigi Intorcia

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Re:Quanto ci costa restare nell'euro
« Risposta #5 il: Marzo 30, 2017, 07:26:58 pm »
Gli organi principali dell'FMI sono il "Consiglio dei governatori" (Board of Governors) a composizione plenaria, il "Consiglio esecutivo" (Executive Board), composto dai 24 direttori esecutivi (Executive Directors) e il direttore operativo (Managing Director).

Il Consiglio dei governatori si riunisce di norma una volta l'anno e le sue funzioni sono in gran parte delegate al Consiglio esecutivo, che siede permanentemente.

Dei membri del consiglio esecutivo 5 sono permanenti e appartengono ai 5 Stati che detengono la quota maggiore (Stati Uniti, Giappone, Germania, Francia e Regno Unito) mentre gli altri sono eletti dal Consiglio dei governatori sulla base di un sistema di raggruppamenti di nazioni (non necessariamente su base regionale).

Il direttore operativo viene eletto dal Consiglio esecutivo e lo presiede.

L'FMI dispone di un capitale messo a disposizione dai suoi membri e il voto all'interno dei suoi organi è ponderato a seconda della quota detenuta. Questo fa sì che, considerato che per prendere le decisioni più importanti sono necessarie maggioranze molto alte (i 2/3 o i 3/4 dei voti), gli Stati Uniti e il gruppo dei principali Paesi dell'Unione europea si trovano di fatto ad avere un potere di veto, presi singolarmente (nel caso della maggioranza dei 3/4) o insieme (maggioranza dei 2/3).
Ripartizione delle quote e dei voti[modifica | modifica wikitesto]
Quote, membri e governatori (Aggiornati al luglio 2016)
Stato membro dell'FMI   Quota: milioni di DPS   Quota: (%)   Governatore   Sostituto Governatore   Numero di voti   Percentuale di voto
Stati Uniti Stati Uniti d'America   82,994.2   17.68[6]   Jacob Lew   Janet Yellen   831,396   16.73
Giappone Giappone   30,820.5   6.56   Taro Aso   Haruhiko Kuroda   309,659   6.23
Cina Cina   30,482.9   6.49   Zhou Xiaochuan   Yi Gang   306,283   6.16
Germania Germania   26,634.4   5.67   Jens Weidmann   Wolfgang Schäuble   267,798   5.39
Regno Unito Regno Unito   20,155.1   4.29   Philip Hammond   Mark Carney   203,005   4.09
Francia Francia   20,155.1   4.29   Michel Sapin   François Villeroy de Galhau   203,005   4.09
Italia Italia   15,070.0   3.21   Pier Carlo Padoan   Ignazio Visco   152,154   3.06
Arabia Saudita Arabia Saudita   9,992.6   2.13   Ibrahim A. Al-Assaf   Hamad Al-Sayari   70,595   2.81
India India   13,114.4   2.79   Arun Jaitley   Raghuram Rajan   132,598   2.67
Russia Russia   12,903.7   2.75      Elvira S. Nabiullina   130,491   2.63
Canada Canada   11,023.9   2.35   Stephen Poloz   Mark Carney   111,693   2.25
Brasile Brasile   11,042.0   2,35   Joaquim Levy   Alexandre Tombini   111,874   2.25
Paesi Bassi Paesi Bassi   8,736.5   1,86   Nout Wellink   Laura B.J. van Geest   52,364   2.08
Belgio Belgio   6,410.7   1.37   Guy Quaden   Jean-Pierre Arnoldi   46,792   1.86
Spagna Spagna   9,535.5   2,03   Elena Salgado   Miguel Fernández Ordóñez   40,974   1.63
Messico Messico   8,912.7   1,90   Agustín Carstens   Guillermo Ortiz   36,997   1.47
Svizzera Svizzera   5,771.1   1.23   Thomas Jordan   Eveline Widmer-Schlumpf   35,325   1.40
Corea del Sud Corea del Sud   8,582.7   1.83   Okyu Kwon   Seong Tae Lee   34,404   1.37
Australia Australia   6,572.4   1.40   Wayne Swan   Martin Parkinson   33,104   1.32
Venezuela Indonesia   4,648.4   0.99   Agus D.W. Martowardojo   Mahendra Siregar   47,938   0.96


I direttori operativi dell'FMI
Nome   Nazionalità   Inizio carica   Fine carica
Camille Gutt   Belgio Belgio   6 maggio 1946   5 maggio 1951
Ivar Rooth   Svezia Svezia   3 agosto 1951   3 ottobre 1956
Per Jacobsson   Svezia Svezia   21 novembre 1956   5 maggio 1963
Pierre-Paul Schweitzer   Francia Francia   1º settembre 1963   31 agosto 1973
Johannes Witteveen   Paesi Bassi Paesi Bassi   1º settembre 1973   16 giugno 1978
Jacques de Larosière   Francia Francia   17 giugno 1978   15 gennaio 1987
Michel Camdessus   Francia Francia   16 gennaio 1987   14 febbraio 2000
Horst Köhler   Germania Germania   1º maggio 2000   4 marzo 2004
Rodrigo Rato   Spagna Spagna   7 giugno 2004   31 ottobre 2007
Dominique Strauss-Kahn   Francia Francia   1º novembre 2007   18 maggio 2011
Christine Lagarde[7]   Francia Francia   5 luglio 2011   In carica

Maggiori prestiti erogati dall'FMI[modifica | modifica wikitesto]
1997: Asia (crisi finanziaria asiatica)
1998: Russia
1998: Brasile (41,5 miliardi di dollari)
2000: Turchia (11 miliardi di dollari)
2001: Argentina (21,6 miliardi di dollari)
2012: Grecia (30 miliardi di dollari)
Il Fondo monetario internazionale è fortemente criticato dal movimento no-global e da alcuni illustri intellettuali quali il premio Nobel Joseph Stiglitz, il premio Nobel Amartya Sen, Noam Chomsky e Jean-Paul Fitoussi. I critici accusano il Fondo Monetario di essere un'istituzione manovrata dai poteri economici e politici del cosiddetto Nord del mondo e di peggiorare le condizioni dei paesi poveri anziché adoperarsi per l'interesse generale.

Inoltre il sistema di voto (che chiaramente privilegia i Paesi "occidentali") è considerato da molti iniquo e non democratico. L'FMI è accusato di prendere le sue decisioni in maniera poco trasparente e d'imporle ai governi democraticamente eletti che si trovano così a perdere la sovranità sulle loro politiche economiche.

Questo tratto dalla comoda wiki.

Quello che si può notare è che nei paesi in cui si muore di fame tali finanziamenti di fatto non arriveranno MAI!

Luigi Intorcia

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Re:Quanto ci costa restare nell'euro
« Risposta #6 il: Marzo 30, 2017, 07:34:49 pm »
FONTE 1999: http://www.paologiaretta.it/1999/09/il-debito-estero-dei-paesi-poveri/

Le origini del debito estero
E’ importante risalire ai meccanismi che hanno portato ad una così rapida crescita del debito estero dei paesi meno sviluppati, perché solo attraverso la conoscenza di questi meccanismi si possono riconoscere le precise responsabilità del sistema finanziario internazionale e dei paesi ricchi e si può comprendere come l’intervento di remissione del debito, come più volte richiamato nei documenti della Chiesa Cattolica e delle organizzazioni di volontariato, non abbia a che fare con una logica di solidarietà verso le nazioni più povere, ma piuttosto ad una esigenza di equità.
Sostanzialmente il meccanismo scatenante della crescita esponenziale del debito estero dei paesi più poveri va individuata nella politica perseguita dal sistema bancario internazionale in conseguenza dello shock petrolifero del 1973 e 1979. L’aumento deciso unilateralmente dai paesi produttori di petrolio del prezzo del greggio fa affluire nelle casse dei paesi produttori rilevantissime disponibilità finanziarie (i cosiddetti petrodollari) che non possono trovare occasione di impiego all’interno dei paesi e che vengono quindi immessi nel sistema bancario occidentale. Le banche commerciali gestiscono questa eccezionale disponibilità (che nel 1980 raggiunge la cifra record di 113 miliardi di dollari) ricercando una collocazione sul mercato, indirizzandola prevalentemente, data la stagnazione delle economie occidentali, verso i paesi del terzo mondo. L’accanita concorrenza tra le banche porta ad interventi spesso poco attenti alla qualità degli investimenti, al rischio Paese, alla effettiva capacità economica dei paesi debitori a sostenere processi di sviluppo capaci di generare risorse aggiuntive per il pagamento del debito.
La seconda crisi petrolifera porta all’adozione di politiche da parte dei paesi più ricchi (USA e Gran Bretagna in particolare) che hanno come conseguenza un forte rafforzamento del dollaro ed una lievitazione dei tassi di interesse, che crescono in termini reali tra il 1978 ed il 1981 di oltre il 20%.
In sostanza i paesi poveri si trovano a pagare interessi crescenti con moneta sempre più debole e si innesca una spirale perversa. Nel 1982 il Messico si trova nell’impossibilità di onorare i propri debiti decidendo la sospensione dei pagamenti. La comunità internazionale reagisce predisponendo i primi programmi di ridefinizione delle scadenze del debito, allungandone i termini e ricontrattando le condizioni; le nuove risorse finanziarie che affluiscono ai paesi poveri sostanzialmente servono a liberare le banche commerciali private dalle proprie esposizioni: i crediti passano in gran parte agli organismi finanziari multilaterali (Fondo Monetario Internazionale e Banca Mondiale) che subordinano i propri interventi all’adozione da parte dei paesi debitori di “programmi di aggiustamento strutturale” che richiedono aumento dell’imposizione fiscale ed ingenti tagli alla spesa pubblica, aumentando le condizioni di povertà delle popolazioni e condizionando negativamente le opportunità di sviluppo futuro.
Il circolo vizioso debito/sottosviluppo
E’ iniziato così un circolo perverso: i paesi indebitati devono rifondere i debiti con valuta pregiata, la cui unica fonte significativa di approvvigionamento consiste nella esportazione di materie prime. Ma il prezzo delle materie prime è costantemente in calo sui mercati internazionali ( nell’ultimo anno il prezzo medio delle materie prime esclusi i prodotti petroliferi è diminuito del 16%), cosicché i paesi più indebitati si trovano due volte sfruttati: perché interessi elevati li obbligano a restituire più volte il capitale prestato, perché la valuta pregiata che devono acquisire costa sempre di più in rapporto alla loro moneta.
Basti pensare che i paesi dell’Africa subsahariana, la parte più povera dell’Africa, devono in media impiegare il 20% del loro prodotto lordo per pagare gli interessi dei debiti contratti: spendono quattro volte di più per pagare debiti a nazioni ricche di quanto possano spendere per gli interventi sanitari a favore delle proprie popolazioni. Soffermiamoci su questo dato: il 20% del prodotto interno lordo è una enormità, che impedisce di impostare ogni processo di sviluppo e promozione umana. Se l’Italia dovesse sostenere un onere di questa dimensione dovrebbe disporre ogni anno di una quota aggiuntiva di 200.000 miliardi di lire. La finanziaria più pesante del Governo Prodi necessaria per rientrare nei parametri di Maastricht ha richiesto un sacrificio di 60.000 miliardi: pensiamo cosa sarebbe del sistema economico, del sistema di protezione sociale, del sistema educativo del nostro paese, che pure è un paese ricco, se dovessimo affrontare ogni anno una manovra economica di queste dimensioni, con aumenti della pressione fiscale, licenziamenti massicci nel settore pubblico e tagli drammatici della spesa sanitaria, educativa ed assistenziale.
Nel 1980 il debito estero dei paesi in via di sviluppo assommava a 658 miliardi di dollari Usa, nel 1990 era salito a 1.539 miliardi di dollari ed oggi si calcola che il debito abbia raggiunto la somma di 2.200 miliardi di dollari, vale a dire circa il doppio del prodotto interno lordo dell’Italia: una cifra che ci appare enorme (e lo è per le economie dei paesi poveri) ma se la commisuriamo al cumulo delle transazioni finanziarie che avvengono nel mondo, a ciò che si spende per i sistemi di armamento e così via ci possiamo rendere conto che è una grandezza che può essere affrontata dalla comunità internazionale senza richiedere alcun significativo sacrificio.
Le cifre del debito sono naturalmente la spia del permanere, ed anzi dell’allargarsi di profonde disparità tra i singoli paesi: l’estendersi di processi di globalizzazione commerciale e finanziaria non sta affatto portando ad una crescita più equilibrata e continua.
E’ vero che i processi di sviluppo investono anche nuovi paesi, capaci di attivare investimenti esteri, ma i paesi marginali vedono accrescere sempre più la distanza dai paesi ricchi: oltre 80 paesi hanno redditi pro-capite più bassi di quelli che avevano dieci anni fa, una famiglia media africana consuma oggi il 20% in meno rispetto a 25 anni fa. Il divario di reddito tra il quinto più ricco della popolazione mondiale ed il quinto più povero si sta accrescendo spaventosamente: era di 30 a 1 nel 1960 rispetto al 74 a 1 del 1997. Cresce anche la concentrazione della ricchezza: i 200 individui più ricchi al mondo hanno più che raddoppiato il proprio patrimonio negli ultimi quattro anni: con oltre 1.000 miliardi di dollari USA posseggono un patrimonio pari al reddito del 41% della popolazione mondiale: è stato osservato che basterebbe un contributo dell’1% annuo sul patrimonio di questi 200 individui per offrire l’accesso universale alla istruzione primaria. Nel 1998 le prime dieci industrie di pesticidi controllavano l’85% della produzione globale, mentre nel settore delle telecomunicazioni le prime dieci imprese controllano l”86% del mercato. I paesi OCSE con il 19% della popolazione globale controllano il 71% del commercio globale di beni e servizi, il 58% degli investimenti diretti esteri.
Le prospettive per i prossimi anni restano negative. Un recente rapporto della Banca Mondiale mette in luce la grave crisi che caratterizza l’economia dei paesi sottosviluppati in conseguenza della crisi finanziaria internazionale iniziata in Asia. Il tasso medio di sviluppo è destinato a calare all’1,5%, rispetto al 4,8% del 1997, raggiungendo il livello più basso dal 1982 e non è prevista una ripresa significativa prima del 2001. Il rallentamento del commercio mondiale, il calo dei prezzi delle materie prime e l’abbandono degli investimenti esteri (il flusso dai mercati di capitali internazionali verso i paesi in via di sviluppo è sceso a 72 miliardi di dollari dai 136 miliardi del 1997) obbligherà i paesi in via di sviluppo ad adottare ulteriori politiche restrittive con drammatiche conseguenze sulla condizione della popolazione.
In questo quadro appare sconfortante l’abbandono da parte dei paesi sviluppati delle politiche di cooperazione e di aiuto: nel 1998 l’assistenza allo sviluppo si è fermata alla cifra globale di 33 miliardi di dollari, un terzo al di sotto del livello del 1990 in termini reali. I paesi OCSE si erano impegnati a portare l’assistenza allo sviluppo allo 0,7% del PIL: al contrario gli aiuti sono calati allo 0,22% del PIL rispetto allo 0,35% del 1990.
Non è questa la sede per approfondire tutte le implicazione dei processi di globalizzazione finanziaria, commerciale, culturale; sono evidenti però i rischi che rapporti transnazionali, in cui soggetti privati contano più di singoli stati, dominati da una esasperata logica di competizione globale generino situazioni di instabilità finanziaria, scontri commerciali, rapporti di dominanza, violazione di diritti umani fondamentali, che sono le premesse per un aumento di conflitti anche di natura bellica.
Rispetto alla globalizzazione dell’economia troppo debole e squilibrata appare la risposta dei Governi: le maggiori strutture economiche (Fondo Monetario Internazionale, Banca Mondiale, Organizzazione Mondiale per il Commercio) sono espressione prevalente degli interessi dei paesi ricchi, l’ONU risulta depotenziata rispetto a sedi decisionali e di concertazione (G-7, Nato, OCSE) che organizzano gli interessi della parte più sviluppata del pianeta.
Manca quella che viene chiamata “global governance”: sedi e procedure che senza limitare tutte le potenzialità positive dei processi di globalizzazione siano in grado di imporre un quadro di regole globali che possano offrire maggiore controllo e trasparenza nelle decisioni dei soggetti economici, assumere iniziative più forti per la tutela dei diritti umani e dell’ambiente, promuovere relazioni più eque tra gli stati.
L’UNPD (United Nations Development Programme) propone ad esempio i seguenti elementi chiave per una nuova architettura internazionale:
un sistema delle Nazioni Unite più forte e coerente, con u maggior impegno di tutti i Paesi;
- una banca centrale globale;
- un trust mondiale degli investimenti:
- una agenzia mondiale per l’ambiente;
- una revisione dell’Organizzazione Mondiale del Commercio, in senso più equo e con un mandato più esteso;
- una Corte Penale Internazionale con un mandato più ampio per i diritti umani;
- delle NU più ampie, che comprenda una Assemblea generale a due camere per permettere che la società civile sia rappresentata.
Possono sembrare obiettivi ambiziosi, e certamente lo sono, ma la sfida della globalizzazione richiede alla politica un sovrappiù di coraggio e lungimiranza.
Perché cancellare il debito
Vi sono almeno quattro buoni motivi per procedere alla cancellazione o sostanziale riduzione del debito dei paesi più poveri.
- Il capitale prestato è stato ormai restituito più volte ed occorre sottolineare che i debiti dei paesi poveri sono diventati una iniqua fonte di profitto e di finanziamento dei paesi più ricchi: basti rilevare che il Fondo Monetario Internazionale dal 1987 ad oggi ha ricevuto dai paesi africani 2,4 miliardi di dollari in più di quanto abbia dato agli stessi paesi; si calcola che le istituzioni finanziarie internazionali abbiano incassato nel 1997 272 miliardi di dollari in interessi e rate di ammortamento del debito estero. Si tratta perciò di por mano ad una opera doverosa che attiene più il dominio della giustizia che quello della solidarietà.
- Occorre aver presente la necessità di rispettare un concetto di accettabilità e sostenibilità del debito. Molti di questi prestiti hanno condizioni (tassi di interesse, mancanza di diritti per il debitore, ecc.) che sul piano del diritto interno potrebbero essere definiti di carattere usuraio: l’UNPD stima che negli anni ’80 i tassi di interessa applicati ai paesi poveri siano stati quattro volte superiori a quelli accordati ai paesi ricchi a ragione della minore solvibilità e del maggior rischio. Che interesse hanno i paesi occidentali a pretendere il pagamento di debiti da parte di economie che non hanno la possibilità di sostenere un onere così rilevante: non si avrà l’adempimento delle obbligazioni e si avrà la distruzioni di economie che in prospettiva invece potrebbero diventare partners dei paesi più ricchi.
- Si tratta di una iniziativa eccezionale, giustificata dalle ragioni eccezionali che hanno scatenato la crescita del debito; è vero che sono diffusi casi di corruzione o di cattivo uso delle risorse disponibili (come l’acquisto di armamenti) ma la ragione fondamentale sta nell’iniziativa dei paesi occidentali di trovare collocazione per il surplus di “petrodollari”.
- Le disponibilità ricavate dall’annullamento del debito possono essere riconvertite nel finanziamento di politiche attive di promozione umana: interventi per la sanità, per l’istruzione, per le infrastrutture di base, per il finanziamento di microiniziative di imprenditorialità, in collaborazione con le organizzazioni non governative che operano nei paesi poveri. Passare perciò da una politica che ha visto crescere debiti per l’acquisto di beni commerciali dei paesi più ricchi ad una politica che veda restituire queste somme per interventi di sviluppo equilibrato e rispettoso dell’ambiente e delle culture locali.

Luigi Intorcia

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Re:Quanto ci costa restare nell'euro
« Risposta #7 il: Marzo 30, 2017, 07:36:13 pm »
L’Iniziativa a favore dei paesi poveri molto indebitati (HIPC)
Le iniziative fin qui assunte dalla comunità internazionale non si sono dimostrate capaci di interventi significativi per la riduzione se non cancellazione del debito. La più recente iniziativa lanciata nel 1996 è quella denominata HIPC (Heavily Indebted Poor Countries): promossa dalla Banca Mondiale e dal Fondo Monetario Internazionale si rivolge ai paesi più poveri con l’intento di rendere “sostenibile” il pagamento di una quota ridotta del debito contratto, coinvolgendo le tre principali categorie di creditori (creditori commerciali, essenzialmente le banche private, creditori bilaterali, vale a dire i paesi ricchi e creditori multilaterali, le istituzioni finanziarie internazionali, Banca Mondiali e Fondo Monetario Internazionale in primo luogo. Essa coinvolge i c.d. Club di Parigi e Club di Londra, che riuniscono i creditori pubblici e privati e prevede un intervento di riduzione del debito fino all’80% per i paesi che abbiano un debito dichiarato insostenibile in base a due parametri: un rapporto costo annuale del debito estero/esportazioni superiore al 25% ed un rapporto valore totale del debito/esportazioni superiore al 250%.
I limiti di questa pur importante iniziativa si sono tuttavia dimostrati troppo pesanti. Troppo ristretto è il numero dei paesi che possono partecipare all’iniziativa, avendo le caratteristiche per poter accedere alla riduzione del debito: sui 41 paesi più poveri solo 20 avrebbero le caratteristiche per accedere ma finora solo sei hanno potuto concretamente avviare le trattative e solo uno sta godendo delle agevolazioni. Troppo lungo è il tempo di attesa per poter avere concretamente delle agevolazioni: prima di poter usufruire della riduzione i paesi devono sostenere per un lungo tempo (fino a sei anni) un periodo di osservazione e controllo, durante il quale devono dimostrare di aver applicato con successo le politiche di risanamento concordate con il Fondo Monetario Internazionale e nel frattempo continua a crescere il peso del servizio del debito. Troppo ristretto è il concetto di sostenibilità del debito, definendo debito sostenibile un debito che di fatto richiede un impiego di risorse che comporta necessariamente una limitazione fortissima delle politiche sociali e di sviluppo. Infine lo stretto legame esistente tra la possibilità dell’ammissione all’intervento di riduzione del debito e le politiche di aggiustamento strutturale (PAS) richieste dal Fondo Monetario Internazionale: si tratta di programmi che di fatto intervengono sulle politiche interne di una paese, limitandone l’autonomia, decise in modo non trasparente e sotto controllo democratico, applicando ricette economiche che non tengono conto delle specificità dei singoli paesi, con effetti devastanti sulle politiche sociali, richiedendosi tagli consistenti della spesa pubblica: divengono necessari il ridimensionamento dei programmi di istruzione, di sanità, licenziamenti nel settore pubblico, abbandono di investimenti, ecc. Il debito diventa teoricamente sostenibile dal punto di vista finanziario, ma si compromette il futuro del paese; i piani di aggiustamento strutturale non dovrebbero avere una dimensione pienamente finanziaria, ma tener conto che politiche di miglioramento del livello di vita della popolazione, sotto il profilo sanitario, dell’alimentazione e dell’istruzione e politiche di promozione della piccola imprenditorialità sono risorse per il futuro che consentendo lo sviluppo dell’economia sia pure nel lungo periodo diventano presupposti per un reale risanamento delle economie dei paesi poveri.
Il limitato successo conseguito finora dalla strumento HIPC è riconosciuto del resto dalle stesse istituzioni finanziarie internazionali: in un recente rapporto Banca Mondiale e FMI riconoscono che “i pagamenti per il servizio del debito dopo aver ricevuto l’assistenza HIPC non sono significativamente differenti da quelli in corso nel periodo anteriore all’ammissione all’intervento”. L’intervento finora programmato porterà ad una riduzione del servizio del debito di soli 200 milioni di dollari per anno, vale a dire l’1% di quanto pagano ogni anno per il servizio del debito i 93 paesi più povero ed indebitati.
Il rapporto mette anche in luce come stiano peggiorando le condizioni dei paesi più poveri sotto un altro profilo: nel 1994 i paesi HIPC hanno ricevuto nuovi prestiti per 8,3 miliardi di dollari, restituendo 7 miliardi di dollari, avendo quindi un credito aggiuntivo di 1,3 miliardi di dollari oltre ad aiuti per 10 miliardi di dollari; nel 1997 i nuovi prestiti assommano a 8,7 miliardi di dollari, a fronte di pagamenti per il debito di 8,2 miliardi di dollari, con una perdita di 200 milioni di dollari, da sottrarre agli aiuti ricevuti per 7,6 miliardi di dollari: in sostanza in tre anni il rapporto di dare ed avere tra paesi poveri e paesi ricchi è peggiorato del 34%.
I risultati del vertice di Colonia
I lavori del vertice G-7 di Colonia dal 18 al 20 giugno 1999 hanno segnato un momento importante per la questione del debito; è di per sé significativo che in un vertice dominato dalla drammatica vicenda della guerra nel Kossovo la comunità dei paesi più ricchi abbia comunque riservato alle decisioni sulla questione del debito uno spazio non secondario. La campagna internazionale della Chiesa Cattolica e della rete di associazioni di volontariato è stata decisiva per preparare per tempo l’opinione pubblica dei singoli paesi, creando momenti di dibattito con richieste specifiche ai Governi riprese con una certa ampiezza dai mass media: situazione che ha indotto i leader governativi, su sollecitazione anche dei Parlamenti nazionali, ad assumere impegni pubblici prima del vertice, in una materia che per il passato era stata confinata ai comitati tecnici di preparazione dei vertici.
Così si sono avute nel periodo precedente al vertice dichiarazioni impegnative dei responsabili di diversi paesi, tra cui Canada, Inghilterra, Germania, Francia e Stati Uniti. Per l’Italia l’allora Ministro del Tesoro Carlo Azeglio Ciampi in occasione della riunione preparatoria del G-7 a Washington in aprile ha annunciato un intervento unilaterale del Governo italiano per la cancellazione di oltre 2.800 miliardi di lire di crediti: sono debiti assunti da una quarantina di paesi poveri con reddito pro capite inferiore a 300 dollari annui; una parte consistente (2.100 miliardi di lire) riguarda crediti commerciali e questo è un punto di principio molto importante perché finora i paesi ricchi avevano manifestato una certa disponibilità di fronte ai debiti derivanti dalle politiche di aiuto degli stati, ma erano stati molto rigidi nei confronti dei debiti commerciali.
L’appuntamento di Washington è stato importante nell’orientare le decisioni di Colonia. Il documento finale dei Ministri delle Finanze e dei Governatori delle Banche Centrali afferma infatti che i Ministri ed i Governatori “convengono sulla necessità ulteriore di implementare e sviluppare l’iniziativa HIPC per provvedere ad accrescere l’aiuto per il debito in modo da promuovere l’obbiettivo di supportare l’uscita permanente dal debito insostenibile e supportare l’alleviamento della povertà”
Pur mancando il documento di indicazioni concrete sulle modalità di intervento, per le quali si rinvia a proposte del FMI e della Banca Mondiale, è importante l’affermazione della necessità di una soluzione permanente e del legame con la lotta alla povertà.
Il comunicato finale di Colonia riprende gli indirizzi di Washington, lanciando la “Köln Debt Initiative” finalizzata a realizzare una iniziativa per “una riduzione del debito più profonda, più ampia e più rapida attraverso maggiori cambiamenti alla struttura HIPC. L’obiettivo centrale di questa iniziativa è consentire una maggiore focalizzazione nella riduzione della povertà, liberando risorse per investimenti in salute, educazione e bisogni sociali. In questo contesto noi incoraggiamo anche il buon governo e lo sviluppo sostenibile”
Il comunicato non approfondisce la modalità di intervento limitandosi a richiamare la necessità di avere a disposizione ulteriori mezzi finanziari e di una equa ripartizione dell’onere.
Il Rapporto dei Ministri delle Finanze sulla “Köln Debt Inititive” è più dettagliato, prospettando un intervento di riduzione del debito per 71 miliardi di dollari, esplicitamente finalizzato all’adozione di politiche a favore delle parti più deboli della popolazione ed alla lotta contro la povertà, prevedendo un accorciamento dei tempi ed un miglioramento dei parametri di ammissione, un allargamento dall’80 al 90% della remissione del debito ed un più stretto legame tra i piani di risanamento finanziario e le politiche di protezione della popolazione. Per quel che riguarda il finanziamento della iniziativa vengono suggerite alcune ipotesi tra cui la possibilità di una vendita scaglionata nel tempo per non creare turbative al mercato di una quota di dieci milioni di once delle riserve auree del Fondo Monetario Internazionale ed un aumento delle contribuzioni dei paesi ricchi al Fondo dell’iniziativa HIPC; in ogni caso le concrete proposte dovranno essere esaminate nel prossimo incontro annuale del Fondo Monetario e della Banca Mondiale.
Vi sono diversi punti positivi nei risultati del vertice di Colonia, che vengono incontro alle richieste avanzate dalle Chiese e dalle Organizzazioni non governative:
a)il miglioramento dei contenuti dell’iniziativa HIPC, con un aumento delle quote cancellabili, della rapidità nell’accesso, del numero dei paesi che potranno accedervi;
b) lo stretto collegamento che viene definito tra la cancellazione di parte del debito e le politiche di promozione delle sviluppo e di lotta alla povertà, con una integrazione tra queste politiche ed i programmi di aggiustamento strutturale;
c) la esplicita previsione della partecipazione di ampi segmenti della società civile dei paesi interessati alla definizione dei programmi;
d) la disponibilità ad utilizzare parte delle riserve auree del Fondo Monetario Internazionale, mobilitando così una quota straordinaria di risorse aggiuntive;
e) il richiamo alla necessità di una maggiore trasparenza nelle operazioni del Fondo Monetario Internazionale.
A fronte di questi aspetti positivi occorre registrare anche gli elementi negativi: la prevista remissione del debito, pur essendo la più ampia fin qui realizzata, è comunque troppo limitata per affrontare radicalmente la situazione drammatica di molti paesi; non è stata accolta la richiesta di una cancellazione del debito impagabile, sia pur finalizzata all’adozione da parte dei paesi debitori di politiche contro la povertà, cosicchè il miglioramento delle condizioni di accesso e l’abbreviamento dei tempi dell’iniziativa HIPC sarà comunque insufficiente per molti paesi. Occorre poi tener conto che la concreta attuazione è rimandata alle decisioni del prossimo incontro delle istituzioni finanziarie e solo dopo tale incontro si potrà valutare l’effettiva portata delle intese di Colonia.
Sono perciò comprensibili i giudizi di moderata soddisfazione delle maggiori ONG impegnate nella campagna per la cancellazione del debito: il giudizio sintetico di Jubilee 2000 è “un importante passo, ma solo un primo passo per i poveri del mondo”; il Presidente dei Volontari del Mondo – Focsiv Luca Jahier ha sottolineato i molti aspetti innovativi, ma ha osservato che il costo dell’intervento programmato rappresenta meno dello 0,0027% del PIL dei sette paesi nei prossimi sette anni; per Oxfam International siamo solo a metà strada nello sforzo per una piena risoluzione della crisi del debito.
Conclusioni
Non vi è dubbio che la campagna internazionale di sensibilizzazione sulla questione del debito dei paesi poveri ha ottenuto alcuni primi importanti risultati; un problema che era rimasto confinato nei tecnicismi finanziari è riuscito ad imporsi all’attenzione dell’opinione pubblica, coinvolgendo milioni di cittadini nei paesi più ricchi, contribuendo a migliorare le posizioni dei governi.
Ora occorre continuare una mobilitazione per verificare che gli impegni presi siano tradotti tempestivamente in azioni concrete da parte delle istituzioni finanziarie internazionali e che sia data attuazione anche agli impegni unilaterali assunti dai singoli governi.
Questo vale anche per il nostro paese. Il Governo dovrà adottare i provvedimenti amministrativi e di iniziativa legislativa per dare operatività all’impegno di cancellazione del debito per 2.800 miliardi di lire; è da ricordare poi che alcune delle mozioni parlamentari sopra richiamate sottolineavano la necessità di una più puntuale informazione del Parlamento e dell’opinione pubblica sulle posizioni assunte dai rappresentanti del Governo italiano negli organismi finanziari internazionali, questione questa di rilevante importanza in questa fase delicata in cui Fondo Monetario Internazionale e Banca Mondiale devono tradurre in proposte operative le indicazioni di Colonia.
Vi è poi la problematica relativa alla regolamentazione giuridica internazionale del debito, con la fissazione di regole più eque ed un maggiore tutela delle parti più deboli, per la quale la sede più opportuna dovrebbe essere una iniziativa in sede di Assemblea delle Nazioni Unite, investendo anche la Corte Internazionale di Giustizia.
La questione del debito, così decisiva per il futuro di una parte dell’umanità, diventa la spia di una questione più ampia; gli ostacoli maggiori che si incontrano per una piena soluzione del problema del debito non derivano dalle dimensioni dell’impegno finanziario richiesto, ma piuttosto dalle resistenze a costruire un sistema di relazioni internazionali ed una architettura finanziaria che incorpori criteri di equità, di pieno rispetto dei diritti umani, di promozione di processi partecipativi e democratici.
Ce lo ricorda un uomo di finanza, come il Governatore della Banca d’Italia Antonio Fazio, abituato alla dura legge delle compatibilità finanziarie: “La globalizzazione finanziaria non è un gioco a somma nulla; da essa derivano vantaggi rilevanti per lo sviluppo dell’economia mondiale; ma ne possono anche discendere instabilità e perdite notevoli per i paesi più piccoli e più deboli. Occorre proseguire con decisione nelle azioni avviate dal Fondo Monetario Internazionale e dalla banca mondiale per sollevare i paesi più poveri altamente indebitati da un onere contratto anni addietro in condizioni di estremo bisogno. Esistono le condizioni per completare questo risanamento entro l’anno 2000, come auspicato dalla Chiesa, da organizzazioni internazionali, da eminenti personalità politiche”.

Luigi Intorcia

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Re:Quanto ci costa restare nell'euro
« Risposta #8 il: Marzo 30, 2017, 07:46:46 pm »
CONCLUSIONE:

se dal 1999 ad oggi ( 2017 ) la finanza mondiale, non ha mai variato la sua politica aggressiva, questo è un dato certo.

 La riprova sta nel fatto, che se la fame nel mondo miete milioni di vittime, la diminuzione non è dovuta alla soluzione del problema, ma dalla mancata sostituzione di generazioni in quanto i milioni di morti, fanno mancare incrementi demografici adeguati, al ritmo occidentale.
In altri orrendi termini, esiste un genocidio da fame e la sparizione di centinaia di milioni di individui nelle aree sottosviluppate, ad un ritmo superiore alle nascite e quindi si stanno estinguendo letteralmente.

Se questo è vero, purtroppo, le soluzioni estemporanee NON FUNZIONANO, quando manca il fattore della produzione.
Termine misconosciuto ai monetaristi e anche quando si paventano fantastiche soluzioni, appena si arriva a toccare questo tasto....... i ragionamenti stranamente si fermano.

Ora invece, NON CI SI DEVE FERMARE, in quanto è proprio la mancanza di produzione, che lega lavoro e reddito che crea problemi insormontabili e che con la sola moneta, non si è più in grado di sostenere .

Questo è l'errore costante che si legge, in mille o miliardi di parole spese da chi si cimenta nella soluzioni, ma che  non avendo una cultura globale economica, si ferma la problematica  solo a quella nostrana e non relativizza il ragionamento, con quello che ci circonda realmente e che non è quasi mai preso in considerazione.

Mi chiedo il motivo.

Forse è mancanza di cultura adeguata alla problematica.   
« Ultima modifica: Marzo 30, 2017, 08:00:13 pm da Luigi Intorcia »

Luigi Cirillo

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Re:Quanto ci costa restare nell'euro
« Risposta #9 il: Aprile 15, 2017, 03:24:30 pm »
luigi, quando dici che il surplus di dollari dei paesi esportatori di petrolio è andato alle banche e paesi occidentali, sai dirmi in che forma: prestiti?
e questi sono stati prestati ai paesi del sud del mondo perchè potessero comprare le merci di quelli sviluppati?
o per fare investimenti?

per il resto condivido quanto hai citato, anche se una concentrazione eccessiva di responsabilità in nuovi organi per sistemare gli effetti distorsivi della globalizzazione, non mi dà fiducia sul successo di queste azioni correttive.